Intervento nell’ambito del convegno “I demoni della demolizione. Tecniche, estetiche ed esodi”, 18-19-20 maggio 2022, Santa Maria di Castello, Genova e pubblicato negli atti (Sagep, 2023).
Mi occupo di tematiche legate al paesaggio e all’ambiente dalla fine degli anni novanta e sono interessato all’osservazione dei processi di trasformazione attraverso quella che si potrebbe definire ‘distruzione creativa’. La fotografia rappresenta per me una sezione, uno spaccato in un preciso punto della storia, che può metterne a nudo le stratificazioni. Qualcuno ha paragonato l’artista a un sismografo, per la sensibilità di cogliere ogni minima variazione in ciò che lo circonda. Per quel che mi riguarda, mi sento più un rabdomante, che sa dov’è l’acqua (nel mio caso la fotografia) attraverso le vibrazioni del treppiedi e, allo stesso tempo, un geoarcheologo, che scava e procede per carotaggi successivi, non guardando più soltanto a ciò che sta all’altezza dei propri occhi, ma anche sotto i suoi piedi. Come sostiene Paul Virilio,[1] la “teleobiettività” ci ha consentito di guardare sempre più lontano, perfino nelle profondità dell’universo, ma vedere di più non significa per forza vedere meglio. Quello che voglio dire è che c’è sempre qualcosa che va oltre la semplice visione e, come dimostrano i più recenti studi nell’ambito delle neuroscienze, è il nostro cervello che costruisce il mondo in cui viviamo. Mi interessa una fotografia che mostri le cose non solo per quello che sono, ma anche per quello che potrebbero o avrebbero potuto essere. Una sorta di ‘sguardo in potenza’. Non credo all’immagine come verità assoluta e sono attratto da quelle situazioni in cui realtà e apparenza si confondono. Per me la fotografia è prima di tutto una messa in scena del reale, una metafora e rappresentazione del mondo, che trae forza dalla sua congenita ambiguità di essere al tempo stesso oggetto e medium di modificazione. La uso come strumento di analisi e riflessione sulle cose, da cui però non mi aspetto mai delle risposte. Compito dell’artista non è a mio avviso fornire certezze, ma sollevare dubbi. Uno degli obiettivi della mia ricerca è provare a verificare se sia possibile osservare un processo di trasformazione nel momento stesso in cui sta accadendo. Intendo soprattutto nei casi in cui il cambiamento non sia immediato o evidente e vada oltre il semplice tempo di apertura dell’otturatore. Fotografarlo quindi per renderlo visibile, osservabile, misurabile, sapendo bene però che, come enuncia il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce i limiti delle misurazioni in un sistema fisico, l’atto stesso dell’osservazione modifica gli oggetti osservati e “l’accadere (…) è piuttosto rimesso al gioco del caso.”[2]
Proverò ora a ripercorrere alcune tappe del percorso che mi ha portato a scegliere il tema della distruzione come campo privilegiato di indagine, declinato attraverso concetti come il tempo, sia esso umano o geologico, la memoria di eventi traumatici accaduti in passato e il limite, metafora di una condizione contemporanea di naturale precarietà. Dal 2003, ho seguito numerosi cantieri di demolizione e bonifica ambientale, grandi aree di trasformazione e recupero del territorio su cui si concentrano molti interessi. Ho fotografato la ex ILVA di Genova Cornigliano, lo stadio Delle Alpi di Torino, la ex Stoppani di Cogoleto, diversi impianti industriali e centrali termoelettriche in Italia e all’estero, il Casinò di Campione d’Italia, viadotti autostradali sulla Salerno-Reggio Calabria. Ultimo in ordine di importanza è stato il progetto fotografico sul cantiere di demolizione e ricostruzione del Viadotto Polcevera a Genova, in seguito al tragico crollo del Ponte Morandi nel 2018, pubblicato in un libro monografico.[3] Seguire l’avanzamento dei vari cantieri mi ha consentito di confrontarmi con realtà sfidanti e complesse, seppure transitorie e in continua trasformazione. Secondo gli architetti dello studio RUR, il cantiere è “un tessuto strutturale, o un corpo – una struttura intermedia, capace di assemblare agglomerazioni eterogenee di spazio, programma e percorso. È in grado di assumere molte forme, nel senso che la struttura può cambiare adattandosi allo spazio a cui dà luogo, attraverso la modifica della rete, l’aumento dei punti di snodo, il cambiamento delle superfici dell’involucro o del riempimento.”[4] Ciò vale a maggior ragione se pensiamo a una demolizione, in cui da uno spazio pieno si passa a un vuoto, attraverso un processo di decostruzione e cancellazione, che è anche rimozione della memoria e dell’immaginario del luogo. Un atto violento, ma necessario per ricostruire e rinnovare. Tra il 2003 e il 2006 sono stato chiamato a fotografare la demolizione notturna di alcuni ponti dell’autostrada A1 Milano/Bologna, per il passaggio della nuova linea ferroviaria veloce TAV. In quella occasione ho trovato conferma dell’idea che avevo maturato sulla fotografia come messa in scena: le luci fotoelettriche che illuminano il cantiere nel buio, lo spettacolo della demolizione con gli escavatori che si muovono seguendo un copione preciso e perfino il pubblico di curiosi che osserva con attenzione i lavori. Da quella esperienza è nata la serie Tutto in una notte,[5] che è fondamentalmente una ricerca sul tempo. Il tempo/limite di ogni cantiere, che deve durare circa otto ore, quando il traffico autostradale viene chiuso in entrambe le direzioni, ma anche il tempo sospeso e dilatato di una rappresentazione teatrale, senza prove generali né repliche, i cui attori principali sono uomini e macchine.
Non sono un reporter, non lavoro sulla cronaca e penso che il mio approccio sia abbastanza lontano dall’idea di narrazione o racconto per immagini. Come diceva il grande fotografo Walker Evans, padre del cosiddetto stile documentario,[6] “a volte vengo chiamato ‘fotografo documentarista’ ma una persona che opera sotto questa definizione potrebbe provare un subdolo piacere nel travestirsi. Molto spesso sto facendo una cosa mentre sembra che ne stia facendo un’altra.” La mia visione si ispira dichiaratamente a quella tradizione, riadattandola in termini progettuali e concettuali all’immaginario contemporaneo, consapevole dei limiti e delle ambiguità del mezzo. Ciò che personalmente mi interessa di più del medium fotografico è proprio la sua congenita ambivalenza di essere allo stesso tempo una cosa e il suo esatto contrario e la sua spiccata capacità mimetica o camaleontica di prendere immediatamente la forma di ciò che gli sta accanto, adattandosi al contesto e mandandolo a volte in cortocircuito. Inoltre, mentre la selezione dell’inquadratura fotografica porta ordine in situazioni anche molto caotiche, la distanza del punto di vista crea naturalmente una scena, innescando relazioni e rapporti di scala tra i vari elementi che la compongono.
Il mio percorso in quella che potremmo chiamare estetica della distruzione o della catastrofe abbraccia anche le modificazioni dell’ambiente che impattano pesantemente sulla storia e la memoria collettiva, mettendo in relazione il tempo umano con il tempo geologico. Paesaggi instabili[7] è una ricerca sul tema del dissesto idrogeologico iniziata più o meno negli stessi anni delle mie prime demolizioni. Si tratta di un atlante delle più importanti frane italiane, frutto della collaborazione con ISPRA ed esposto nel 2004 al Congresso Mondiale di Geologia a Firenze. L’intento del progetto non era quello di alimentare un allarmismo cieco, ma piuttosto di promuovere, attraverso la conoscenza approfondita dei luoghi, una maggiore consapevolezza dell’abitare e del rischio. Un momento di sintesi che di solito ha poche possibilità di espressione fuori dai clamori e dalle polemiche che seguono un evento infausto. La pratica artistica che nasce e si sviluppa in sinergia con la ricerca scientifica, si pone come filtro tra gli enti territoriali preposti alla messa in sicurezza del territorio e gli abitanti, esercitando nello stesso tempo uno stimolo nuovo ed interessante nei metodi di analisi e comunicazione degli studiosi. In continuità con questa esperienza, nel 2011 sono stato invitato a Messina dal Prof. Marco Navarra della Facoltà di Architettura dell’Università di Catania, per produrre, insieme ad altri colleghi fotografi, Laura Cantarella, Peppe Maisto e Filippo Romano, una campagna fotografica inedita sui territori colpiti dagli eventi alluvionali dell’ottobre 2009, dove morirono trentanove persone. La ricerca si inseriva nel progetto più ampio Terre fragili,[8] coordinato dallo stesso Navarra, sull’architettura della città nell’epoca dei disastri e sulla “psicologia collettiva della paura”, che legittima il paradigma della messa in sicurezza attraverso logiche di emergenza selettive e lineari, in cui alla tecnica viene di solito affiancata una militarizzazione del territorio. La sfida era immaginare risposte alternative e praticare un nuovo paradigma conoscitivo. In quella occasione ho usato le mie esperienze precedenti per costruire una sorta di manuale dal titolo How to Photograph a Landslide,[9] come fotografare una frana, simulando una pubblicazione scientifica con testi, immagini, disegni e mappe. In questo caso non mostro solo i luoghi per quello che sono, ma uso un vero e proprio dispositivo visivo per andare sempre più a fondo al soggetto e per far sì che esso sia visto da prospettive differenti e letto su diversi livelli, andando a scardinare alcuni stereotipi visivi e culturali sul tema dell’emergenza. Immagini a parte, tutto il resto è un falso, compresi i testi, dove ho cambiato solo alcune parole, facendo riferimento alla fotografia invece che alla geologia e smontando la tipica retorica della letteratura tecnico/scientifica. Il progetto si presenta sotto forma di libro d’artista, un dispositivo visivo che rafforza e tiene insieme i diversi materiali e contenuti eterogenei raccolti durante la ricerca.
Con Study for the End of the World n.2, nel 1962 l’artista svizzero Jean Tinguely progetta e costruisce una macchina autodistruttiva nel deserto del Nevada utilizzando componenti di scarto prelevati da una discarica. Siamo in piena Guerra Fredda e l’area vicino a Las Vegas è teatro di numerosi test nucleari, che creano anche un flusso di turismo atomico per osservare da lontano i funghi delle esplosioni. La performance viene ripresa e trasmessa sulla rete nazionale NBC, grazie alla quale i telespettatori americani possono assistere dal sicuro delle loro case a questa metaforica fine del mondo. Nel mio lavoro credo di essere in qualche modo alla ricerca di quel punto di collasso dell’illusione che è la catastrofe, risultato di una concatenazione di eventi i cui effetti sono visibili oggi, come il riverbero di una stella esplosa milioni di anni fa, che possiamo evocare e guardare in immagine solo attraverso il suo riflesso. Mi interessa la catastrofe perché è sempre un momento di passaggio netto tra un prima e un dopo, dove nulla sarà più come in precedenza, che ci mette di fronte in maniera violenta alla realtà in tutta la sua materialità. Nel corso degli anni, lavorando sul territorio ed affrontando tematiche diverse, ambientali e sociali, mi sono sempre più interessato al concetto di limite, o meglio, allo strano orizzonte degli eventi su cui viviamo e vive il paesaggio contemporaneo, in equilibrio instabile, perennemente in bilico tra eccellenza e rischio. Come fotografo, però, il rischio che sento più incombente è che il mondo esterno finisca per assomigliare sempre di più alla propria immagine, o, per meglio dire, che ne venga addirittura sostituito, secondo il fenomeno tutto contemporaneo dell’immagine che precede l’esperienza, rendendo quest’ultima praticamente superflua.[10] Inevitabilmente questo tocca molto da vicino la fotografia, che ha avuto un ruolo importante, anche se a volte ambiguo ed estetizzante, nella restituzione in immagine dei luoghi. La mia personale risposta a tale tradizione è stata l’introduzione di un elemento dissonante e sovversivo all’interno dell’immagine, l’esplosione. Un evento istantaneo, che condiziona il contesto, divenendone centro di attrazione. L’esplosione è l’inceppo, l’inatteso, il ritorno traumatico alla realtà, “il punto in cui l’immaginazione non mette a posto tutto e lascia le cose così.”[11] Più o meno dal 2008 ho iniziato ad interessarmi alle esplosioni controllate, prima nell’ambito a me più vicino delle demolizioni, poi in altri campi di applicazione, escavazione, tunnel, distacco artificiale valanghe, pirotecnica, ecc. E siccome amo complicarmi la vita e volevo anche provare a minare alle fondamenta tutta quella retorica novecentesca dell’‘istante decisivo’, ho scelto di farlo con una camera di grande formato a lastre singole 4×5 pollici. Ciò mi ha consentito di mantenere un certo grado di casualità, ansia e incertezza che ho ritrovato, insieme ad altre affinità tecnico/performative, nel mestiere del fochino e da lì è nato l’immaginario manuale di esplosivistica KA-BOOM The Explosion of Landscape.[12]
Ho dichiarato più volte che una delle suggestioni più potenti per la genesi di KA-BOOM è stato l’attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001 e un particolare fenomeno chiamato “diplopia”, chiaramente descritto dal curatore Clément Chéroux.[13] Anche la famosa e controversa fotografia di Thomas Hoepker, scattata quel giorno ad un gruppo di newyorkesi seduti a chiacchierare mentre dietro di loro una grande nuvola di polvere e fumo si alza da Manhattan,[14] è stata seminale, non solo dal punto di vista visivo. Se l’esplosione del quartiere Pruitt-Igoe il 15 luglio 1972 a St. Louis, Missouri, era stata definita da Charles Jencks “il giorno in cui l’architettura moderna è morta”, l’11 settembre potrebbe essere in qualche modo l’inizio della fine del postmodernismo o l’atto conclusivo della “passione per il reale”[15] dell’arte del ventesimo secolo. Un evento che ha lasciato noi senza parole e l’arte senza più immagini. È la realizzazione di tutte le nostre peggiori fantasie distruttive,[16] il reale che ci risveglia dalla realtà stessa e che può essere vissuto solo, ricordando Lacan, sotto forma di lacune traumatiche nell’ordine simbolico. Addirittura, il compositore Karl-Heinz Stockhausen ha definito l’11 settembre “la più grande opera d’arte mai esistita nell’intero universo”, un momento assoluto ineguagliabile da ogni forma artistica. Ovviamente, penso che parlare di un’esplosione atomica o dell’11 settembre come opere d’arte sia solo un paradosso. Ma a volte abbiamo bisogno di figure retoriche per capire meglio qualcosa, per scuotere le nostre coscienze o anche per ricordarci la nostra finitezza e la nostra impotenza verso fenomeni più grandi. Così facendo, gli eventi traumatici possono essere paragonati ad atti di distruzione creativa. I traumi superano la nostra immaginazione, perché sono inaspettati e hanno bisogno di tempo per essere elaborati. Dimostrano che esiste una realtà più forte che resiste all’illusione. Probabilmente il nostro cervello deve mettere in atto delle forme di autodifesa o di compensazione e una di queste è sicuramente l’immaginazione, la creazione di immagini per staccare le cose da noi stessi e poterle affrontare, accettare e superare. Come artista e poi come creatore di immagini, ne sento sia il privilegio, sia la grande responsabilità. Il potere seducente ed estetico della fotografia ci porta a volte ad accettare cose terribili come la normalità. L’esplosione è per me la rappresentazione di una dissoluzione, perfetta metafora della distruzione del mondo contemporaneo a cui ogni giorno assistiamo come spettatori, a volte indifferenti. Uno spettacolo sublime che attrae e respinge al tempo stesso; violento e doloroso, ma forse necessario per ricostruire e rinnovare. Una sorta di ‘distruzione creativa’. Questo termine, coniato dal sociologo marxista Werner Sombart alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, è stato successivamente ripreso dall’economista austriaco Joseph Schumpeter. Secondo la sua teoria le forze creative-distruttive scatenate dal capitalismo porterebbero inevitabilmente alla sua scomparsa come sistema. In filosofia, Friedrich Nietzsche sostiene il principio universale di un ciclo di creazione e distruzione, in modo tale che ogni atto creativo porti sempre con sé delle conseguenze distruttive e Albert Einstein definisce l’innovazione come “un atto di distruzione creativa”. Si tratta di inevitabili processi ciclici di alternanza tra ordine e caos, che ci riportano alle origini dell’Universo e ai miti della Creazione. Ordine e caos non sono però categorie antitetiche, ma estremi di uno spazio della complessità, in cui possono attuarsi il maggior numero di possibilità. Anche il processo artistico agisce in questo spazio e la creatività comporta necessariamente che I’artista si misuri con la distruttività, anche la propria, accettandone il rischio.
Concludendo, credo che sia sempre un problema di ‘distanza’. Lo scrittore Terry Castle nel 2011 ha ammesso che con quella provocazione sull’11 settembre “Stockhausen ci ha fatto un regalo terribile: un’idea che non se ne va, una serie di parole davvero scioccante. Se ci tieni all’arte e ai suoi significati, il suo annuncio conserva il suo esorbitante potere di ferire”.[17] La distanza da un evento modifica la percezione che ne abbiamo, così come contemplare oggetti sublimi da una posizione di sicurezza può essere emozionante e piacevole, anche con una coazione a ripetere. Ricordo ciò che il critico Francesco Zanot ha scritto su KA-BOOM: “C’è una caratteristica costante che si trova in ogni fotografia di questa serie ed è la distanza da cui vengono scattate. In genere è abbastanza lunga e sufficiente per permetterci di sentirci al sicuro da ogni pericolo. La nostra posizione, o meglio la posizione del fotografo, può quindi essere letta in due modi diversi. È sia quello di uno spettatore curioso di fronte a uno spettacolo insolito, sia quello di un bombarolo che si diletta per la distruzione che ha provocato. Lasciando da parte la nostra innocenza o complicità, queste fotografie ci ricordano che guardare non è mai un atto neutrale”.[18] Tutti i miei lavori, compreso questo, usano il soggetto come pretesto per fare o dire qualcos’altro. Rappresentano una riflessione teorica sul linguaggio fotografico e innescano un immaginario già presente nella mente di chi guarda, per attivare un pensiero più profondo. Le immagini sono sempre modi di agire sulla realtà per modificarla e per stimolare processi di conoscenza. Sono davvero colpito dal fatto che molte persone mi chiedano spesso se le mie fotografie siano costruite o messe in scena, anche se in effetti non lo sono. Mi fa riflettere sulle credenze e sulle aspettative che continuiamo ad avere nei confronti delle immagini, nonostante ogni persona le manipoli ogni giorno attraverso le più banali app dei propri smartphone (o forse proprio per questo). È come se, per abitudine, non si riuscisse più ad accettare una realtà fuori dall’illusione.A questo proposito, mi sembrano significative le parole di Paul Virilio: “Una società che privilegia sconsideratamente il presente, il tempo reale, a scapito del passato oltre che del futuro, privilegia anche l’incidente. Dato che, da un momento all’altro, tutto accade e il più delle volte inaspettatamente, una civiltà, che attua l’immediatezza, l’ubiquità e l’istantaneità, mette in scena l’incidente, la catastrofe.”[19]
[1] Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina editore, Milano, 2007.
[2] Werner Karl Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Guida editori, Napoli 1991.
[3] Andrea Botto, Reviviscenza. Un ponte su Genova, Rizzoli – Mondadori/Electa, Milano 2020.
[4] “Jesse Reiser and Nanako Umemoto. Recent Work” in Columbia Documents of Architecture and Theory Vol. 6, Columbia Books of Architecture (CBA), D.A.P., 1997
[5] https://www.andreabotto.it/tutto-in-una-notte/
[6] “Documentary? That’s a very sophisticated and misleading word. And not really clear. You have to have a sophisticated ear to receive that word. The term should be ‘documentary style’. An example of a literal document would be a police photograph of a murder scene. You see, a document has use, whereas art is really useless. Therefore, art is never a document, though it certainly can adopt that style.” Walker Evans intervistato da Leslie George Katz, Art in America, 1971.
[7] https://www.andreabotto.it/paesaggi-instabili/
[8] Liliana Adamo (a cura di), Marco Navarra, Terre fragili. Architettura e catastrofe, LetteraVentidue, Siracusa, 2017.
[9] https://www.andreabotto.it/how-to-photograph-a-landslide/
[10] “L’immagine, oggi, attribuisce un colore particolare alla tensione fra attesa e ricordo che fin dalla partenza costituisce l’ambivalenza del viaggio. Le immagini, prima della partenza, sono tantissime: dilagano sui nostri muri e, ovviamente, sugli schermi televisivi. Nelle agenzie turistiche, i dépliant, i cataloghi e addirittura i percorsi virtuali su schermo che fin d’ora è possibile effettuare presso gli operatori più attrezzati, permettono di vedere le cose prima di andarle a rivedere. Il viaggio diventerà ben presto analogo a una verifica: per non deludere, la realtà dovrà assomigliare alla sua immagine.” Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
[11] Gianni Celati intervistato da Matteo Bellizzi su Doppiozero, 6 aprile 2011, http://doppiozero.com/materiali/speciali/intervista-di-matteo-bellizzi-gianni-celati
[12] Andrea Botto, KA-BOOM The Explosion of Landscape, Èditions Bessard, Parigi, 2017.
[13] Clément Chéroux, Diplopia. L’immagine fotografica nell’era dei media globalizzati: saggio sull’11 settembre 2001, Einaudi, Torino, 2010.
[14] https://www.theguardian.com/commentisfree/2011/sep/02/911-photo-thomas-hoepker-meaning
[15] Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis edizioni, Milano, 2016.
[16] Salvoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Milano, 2002.
[17] https://nymag.com/news/9-11/10th-anniversary/karlheinz-stockhausen/
[18] Francesco Zanot, “L’esplosione del paesaggio”, testo critico per la mostra Andrea Botto KA-BOOM, Bugno Art Gallery, Venezia, 2014.
[19] Paul Virilio, “Le musée de l’accident” in Ce qui arrive, Actes Sud/Fondation Cartier pur l’art contemporain, Arles/Paris, 2002.