Più che a ‘super luoghi’ siamo di fronte a ‘luoghi comuni’, perché la loro diffusione li ha fatti diventare la normalità. Nell’attraversarli non c’è più niente di straordinario, se non la vaga impressione di essere attori di un eterno presente messo in scena all’infinito. C’è forse bisogno di un dizionario rinnovato che ci aiuti a definirli, di una visione a scala più ampia per non innamorarsene, per non trasformare tutto in un elogio retorico da aggiungere alla già sterminata letteratura di genere prodotta in questi ultimi anni. Da fotografo e quindi da osservatore privilegiato, mi interessa di più capire quanto la fotografia abbia contribuito al successo ed alla diffusione di questi luoghi. Non credo all’immagine come verità assoluta, anzi sono molto interessato a quelle situazioni in cui realtà e finzione si confondono; per me la fotografia è, prima di tutto, una messa in scena, una rappresentazione ambigua del mondo, la cui forza nasce dalla capacità di far convivere vero e verosimile.
Per questo motivo, forse, esiste un interesse particolare verso tutti quei luoghi in cui queste caratteristiche sono condensate in porzioni ristrette e riconoscibili del territorio. Di fronte ad essi però, il fotografo non si dovrebbe limitare e piegare alla conferma di una tesi precostituita o peggio ancora, al cieco abbellimento formale; il suo compito non è dare risposte, ma, al contrario, sollevare dubbi e interrogativi utili al progetto. Mi chiedo se davvero “in un mondo nel quale l’immagine è onnipresente, è opportuno che la realtà assomigli alla sua immagine”[1]. Nell’epoca del ‘reality’ a tutti i costi, essa diviene più vera del suo soggetto e la realtà esiste e si rinnova solo nella sua icona, fino ad arrivare al paradosso che se di un fatto non si ha una documentazione visiva è come se non fosse mai avvenuto. D’altronde, come ha detto il ‘signor’ Kodak, “una foto non scattata è un ricordo che non c’è!”
“…non siamo mica gli americani,
che loro possono sparare agli indiani,
VACCA gli indiani…fuoco agli indiani.
SPASH, SPASH, SPASH, gli indiani!”(Per quello che ho da fare) Faccio il militare
Vasco Rossi, 1979
[1] Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, 2004