Qualcuno ha paragonato l’artista ad un sismografo, perché è il primo a percepire ogni minima vibrazione o cambiamento che sta accadendo di fronte a lui.
Per quel che mi riguarda, penso che il mio lavoro possa essere paragonato a quello di un rabdomante, che, sentendo vibrare il treppiedi, sa di aver trovato la sua acqua (la fotografia) e, allo stesso tempo, di un geoarcheologo, che lavora per “carotaggi” prendendo delle campionature dal paesaggio e che non guarda più soltanto a ciò che sta all’altezza dei propri occhi, ma anche sotto i suoi piedi.
Come dice Paul Virilio nel suo saggio “L’arte dell’accecamento”, la teleobiettività ci ha consentito di guardare sempre più lontano, perfino nelle profondità dell’universo, ma vedere di più non significa per forza vedere meglio, soprattutto “in un mondo in cui la priorità sembra non essere più quella di vedere, quanto piuttosto di essere visti”.
da “Dodici cercatori” Val Bormida, 2015
Per questo non credo all’immagine come verità assoluta e sono molto interessato a tutte quelle situazioni in cui realtà e apparenza si confondono. Per me la fotografia è prima di tutto una messa in scena del reale, una metafora e una rappresentazione del mondo, che trae forza dalla sua congenità ambiguità.
Mi piace il potere camaleontico ed elusivo delle immagini, la loro capacità di adattarsi immediatamente al contesto dove sono mostrate assumendone la forma. L’immagine è come un interruttore che attiva un immaginario condiviso, che è come una nuvola sopra le nostre teste, con una propria materialità. Uso la Fotografia come una sinapsi di questa memoria collettiva, già presente nella nostra mente.
Credo alla fotografia come strumento di analisi e riflessione sulle cose, da cui però non mi aspetto mai delle risposte. Compito del fotografo non è a mio avviso fornire certezze, ma sollevare dubbi.
Nel corso del tempo, lavorando sul territorio ed affrontando tematiche diverse, ambientali e sociali, mi sono sempre più interessato al concetto di limite, o meglio allo strano orizzonte degli eventi su cui viviamo e vive il paesaggio contemporaneo, in equilibrio instabile, perennemente in bilico tra eccellenza e rischio
Con il mio lavoro cerco di esprimere un senso di precarietà, senza pretendere di risolvere le immagini in modo assoluto, né di suggerire una neutralità di giudizio che non è mai del tutto possibile. Mi interessa mostrare i luoghi non solo per quello che sono, ma anche per quello che potrebbero o avrebbero potuto essere.
Il Tempo dell’Uomo e il Tempo della Natura raramente coincidono; si limitano piuttosto a trovare un difficile equilibrio, solo apparente, in continua trasformazione, attraverso un’irreversibile, ma naturale entropia.
“Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza sulla stessa difficoltà. Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.”
Cesare Pavese, “Dialoghi con Leucò”, 1947